Gustav Mahler affermava che una sinfonia deve essere un mondo. La sua ultima sembra esserne la fine. Il compositore completò la Nona nell’estate del 1909, ma non ebbe la possibilità di ascoltarla in vita. La si potrebbe definire un presentimento di morte, non solo individuale ma collettiva. Ebreo boemo di lingua tedesca, come Franz Kafka e Hans Kelsen, al contrario dello scrittore e del giurista Mahler non ha assistito alla fine del mondo asburgico; nato nel 1860 (Kafka era del 1883, Kelsen del 1881), morì nel 1911 per un’endocardite. Ma forse è stato il vero interprete della Finis Austriæ.
Nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, grandissimo successo per l’esecuzione della Sinfonia n.9. Antonio Pappano ha guidato l’Orchestra dell’Accademia in un applauditissimo concerto, in tre appuntamenti: giovedì 10, venerdì 11 e sabato 12 maggio. Ho assistito a quello del venerdì e l’ovazione che ha salutato direttore e professori è stata grandiosa.
La Sinfonia n.9, l’ultima “intera” (Mahler ne iniziò una decima, ma la “maledizione di Beethoven” lo colpì inesorabile), è un autentico dialogo con la morte e forse presagio della fine di una civiltà. L’autore la compose meno di due anni prima della scomparsa e a cinque dall’inizio della fine del mondo asburgico.
Dopo la gigantesca Ottava e Das Lied von der Erde (sinfonia non catalogata come tale), egli torna alla musica assoluta e lo fa costruendo una cattedrale sonora di rara suggestione. I movimenti estremi sono in tempo lento, mentre i due centrali costituiscono una specie di momento unitario, in cui Mahler gioca le carte del suo umorismo, anche in un’opera che affronta il mistero del passo estremo. Nel secondo movimento fa la sua comparsa un Ländler, una danza popolare in ¾, come il valzer che la segue; le indicazioni di tempo sono “abbastanza goffo e molto grossolano” (fosse stato romano, dice un amico, da qualche parte sentiremmo risuonare La società dei magnaccioni). Nel terzo movimento Mahler dà spazio a un Burleske indicato come “ostinato”. L’epilogo è un Adagio “molto lento e ancora ritenuto”, tra le pagine più commoventi della storia della musica. Come la Patetica di Čajkovskij, finisce spegnendosi secondo le indicazioni del compositore.
Qui Pappano e l’orchestra hanno dato il meglio di sé. Indelebile emozione il repentino passaggio dal fortissimo con grancassa all’immediato pianissimo dei violini, vero virtuosismo direttoriale che toglie il respiro. Fino a quello spegnersi del suono dopo gli ultimi sussurri delle viole e l’estremo accordo dei violini. Il direttore e gli strumentisti restano immobili nell’ultimo gesto dell’esecuzione e fanno ascoltare quella cosa preziosa che troppo di rado capita in una sala da concerto piena: il silenzio assoluto. Silenzio che dura pochi inestimabili secondi, rotto dal fragore degli applausi e dei
bravi! del pubblico.
In grande evidenza le prime parti dell’orchestra, con il flauto Adriana Ferreira, l’oboe Paolo Pollastri, il clarinetto Stefano Novelli, il fagotto Francesco Bossone, il corno Guglielmo Pellarin, la tromba Andrea Lucchi. E anche il primo violino Carlo Maria Parazzoli, la prima viola Raffaele Mallozzi, il primo violoncello Luigi Piovano.